SCRIPTA MANENT - 08/07/2009

I.T.G.

DI CRISTINA

“Pronto?”
“Buongiorno signora, sono il dottor G., il genetista, vorrei che venisse in ospedale per parlare del risultato della sua amniocentesi…”
Incredibilmente non mi si gelo’ il sangue: era la telefonata che non avrei mai voluto ricevere ma che invece mi aspettavo. Sentivo che sarebbe arrivata e avrebbe spazzato via la mia vita di prima.
Sapevo che iniziavo in quel momento il mio viaggio solitario verso l’inferno. E lo sapevo, lo sentivo, già da tanto. Da quel test di gravidanza positivo, incredibilmente positivo, nonostante la mia età non piu’ verde. Quelle cazzo di due lineette che mi dicevano “sì ce l’hai fatta ma non cantare vittoria tanto presto”.
Adesso tutti i tasselli andavano a posto. Adesso aveva un senso il non volerlo dire, la gioia che spingevo giù come una testa tenuta sott’acqua, là dove è annegata senza mai poter venire a respirare in superficie. E ora?
“Signora è ancora lì?”
“sì sono qui. Ma me lo dica pure al telefono cosa c’è che non va”. Il mio tono asciutto e risoluto convinsero il medico perché sottovoce, delicatamente alzò un’ascia e me la piantò nel cuore:
“c’è un cromosoma in più. Una trisomia”.
Dopo è stato un turbinio di burocrazia e di ipocrisia. La consulenza psicologica, la ricerca di un letto in ospedale e il desiderio che tutto finisse presto. E che non finisse mai. Incredibilmente il numero degli obiettori di coscienza è inversamente proporzionale al numero di credenti. E siccome a pensar male si fa peccato ma di solito ci si azzecca, ho fortissimo il dubbio che queste obiezioni seguano più le logiche della carriera che quelle della coscienza.
Ore 13 prima candeletta di cervidil. Serve a dilatare la cervice. Una cervice che in condizioni normali deve restare chiusa ermeticamente e che fa resistenza. Una resistenza che si traduce in dolori allucinanti, molto peggio delle contrazioni del travaglio di parto che almeno vanno e vengono.
Ore 22 con un’ultima spinta sento il corpicino di mio figlio che scivola via da me. E io voglio solo andare con lui. E voglio solo bestemmiare e urlare il mio dolore: “Perché cazzo, perché????”.
Tornare a casa. Mettersi a letto e voler solo dormire. Svegliarsi e, in quei brevi secondi che precedono il risveglio vigile, sperare di aver avuto un incubo. E il burrone buio che si riapre e che ti inghiotte di nuovo. Urlare come un animale ferito e assistere alla fiera delle banalità di chi vorrebbe tirarti su. “Non avresti potuto fare diversamente”, “non fare così”, “passerà”, “tirati su”.
Poi all’improvviso tutti chiudono il capitolo e non se ne parla più. E se da una parte è un sollievo non sentire più tante stupidaggini dall’ altra ti sembra che il tuo bambino sia morto un’altra volta. Questa convinzione di aver avuto un lutto è tipica solo delle mamme. Gli altri, pur amandoti molto, non sentono la perdita ma solo il dispiacere. Allora anche tu fai finta che vada tutto bene. Ti butti come una disperata nella quotidianità e speri.
Speri che qualcuno ti smascheri e ti abbracci. Speri che ti dica che la voragine che ti sei ritrovata dentro si chiuderà. Ma soprattutto speri che ti dica queste parole
“non piangere più, vedrai tornerà”.