PRIMA PAGINA - 07/01/2010

La Russia di Carrère tra erotismo e Tolstoj

DI PAOLO NORI

Mi immagino che il titolo del libro di Emmanuel Carrère La vita come un romanzo russo (Einaudi, pp. 276, euro 17,50, tr. it. di Margherita Botto), sia un titolo redazionale, dovuto al fatto che il titolo originale (Un roman russe) tradotto alla lettera sarebbe stato quasi identico a quello di un libro relativamente recente di Alessandro Barbero, Romanzo russo, uscito per Mondadori nel 1998. Bellissimo titolo, La vita come un romanzo russo, anche se in contraddizione con quanto scrive Carrère a pagina 269: "Se scrivessi un romanzo, avrei fatto in modo di chiudere il cerchio /…/ ma non scrivo un romanzo". È una cosa forse un po’ strana, intitolare un libro Un roman russe e dopo 269 delle 276 pagine che lo compongono dichiarare che non si tratta di un romanzo, e viene da chiedersi prima di tutto se il libro di Carrère sia o non sia un romanzo.

La questione, che rimanda alla questione “Cos’è oggi un romanzo”, può sembrare puramente formale, nominalistica, verrebbe da dire, eppure credo che tutti quelli che si occupano di letteratura, che ragionano intorno alla letteratura, che hanno la mania, in un certo senso, della letteratura, ci abbiano pensato, una volta o l’altra, io perlomeno ci ho pensato, e mi è venuto da chiedermi quale sia, oggi, per me, il romanzo, il vero romanzo, l’archetipo del romanzo, il romanzo al quale penso quando penso alla parola romanzo, e mi è venuto da rispondermi che quel romanzo lì è Guerra e pace di Lev Tolstoj.

E mi è tornato in mente di aver letto da qualche parte che quando Guerra e pace uscì, a metà Ottocento, la critica principale che mossero a quel romanzo di Tolstoj, cioè a quello che a me, oggi, sembra il romanzo più romanzo che si possa immaginare, fu che non era un romanzo, perché mescolava e faceva incontrare personaggi realmente esistiti, come Kutuzov e Napoleone, con personaggi inventati, come Pierre Bezuchov e il principe Andrej.

Allora mi sono detto che forse, anzi probabilmente, i romanzi di oggi, i veri romanzi contemporanei, anche loro, come Guerra e pace a suo tempo, oggi non sembrano romanzi, sembrano piuttosto non romanzi, e il romanzo di Carrère sembra talmente un non romanzo che io sono quasi sicuro che sia un vero romanzo.

Nella Vita come un romanzo russo, che si presenta come una specie di cronaca autobiografica lunga tre anni, ci son perlomeno tre storie: la prima è ambientata in una piccola città russa, Kotel’nik (il cui nome deriva da kotël, che significa marmitta, o calderone), dove il protagonista arriva sulle tracce dell’ultimo prigioniero ungherese della Seconda guerra mondiale, Toma Andràs, un uomo che ha vissuto in Russia per cinquant’anni senza imparare una parola di russo; la seconda è un tentativo di ricostruzione della biografia del nonno materno dell’io narrante, Georges Zurabishvili, un georgiano emigrato in occidente dopo la rivoluzione e arrivato a Parigi nel 1925, un coetaneo di Nabokov che si mette a fare il tassista e scrive lettere lunghe 25 pagine con uno tono che ricorda quello dell’uomo del sottosuolo di Dostoevskij ("E chi ti difenderà? Non ti difenderà nessuno - perché hai davvero pestato i piedi a troppa gente con la tua diabolica arroganza. Sei solo, con i tuoi sogni grandiosi. Mentre noi saremo anche umili, ma siamo la moltitudine - oh, che moltitudine"); la terza è la storia della relazione tra l’io narrante e una donna che si chiama Sophie, della cui bellezza, che suscita l’invidia dei suoi amici, l’io narrante è fiero, ma della cui estrazione sociale, che in quegli stessi amici suscita imbarazzo, l’io narrante si vergogna ("La amo, ma non amo i suoi amici, non sono a mio agio nel suo mondo, che è quello dei modesti stipendiati, delle persone che dicono "su Parigi" invece di "a Parigi" e vanno a Marrakesh in gita aziendale").

Va detto che a circa due terzi di La vita come un romanzo russo parte un congegno narrativo, scatenato da un racconto erotico pubblicato su “Le Monde”, che illumina la seconda parte del libro, che lo rende, in un certo senso, memorabile, e che prepara, come in un romanzo, un finale, o una serie di finali, che muovono tutti irrevocabilmente verso il disastro, verso la stessa condizione in cui l’io narrante si trovava all’inizio del libro, a pagina 10, la condizione di "un uomo che riprende conoscenza in un bugigattolo dove non vede niente, non sente niente, non può muoversi e ci mette un po’ a capire che lo hanno sepolto vivo, che tutto il sogno della sua vita portava a quello, e che questa è la realtà, l’ultima, quella vera, quella da cui non si sveglierà mai".