PRIMA PAGINA - 04/01/2008

Il capo dei capi critiche ad una fiction seguitissima

POSTATO DA: VIVIANA

Andrea Camilleri è intervenuto in prima pagina su La Stampa: "Ritengo che l'unica letteratura che tratti di mafia debba essere quella dei verbali di polizia e carabinieri e dei dispositivi di sentenze della magistratura. A parte i saggi degli studiosi".



I familiari di Mario Francese hanno protestato contro Mediaset e gli sceneggiatori del film. Nella storia, infatti, non figura il personaggio di Mario Francese (di contro, figura il personaggio inventato Biagio Schirò).



Mario Francese è stato il primo giornalista a scrivere che un contadino di Corleone di nome Salvatore Riina era diventato il capo della "nuova mafia". Per questo, una sera di gennaio del 1979, è stato ucciso. E poi dimenticato.




di Giuseppe Francese (biografia ricostruita attraverso i suoi scritti)

Onora il padre dice un comandamento. Con il mio non ho avuto molto tempo per farlo quando era in vita, ma ho cercato di farlo sicuramente ancora di più da quando è morto. Avevo dodici anni quando la sera del 26 gennaio 1979 ho sentito da casa quella tragica sequenza di colpi da arma da fuoco. Sei per l’esattezza. Da lì a poco scoprii che quei colpi avevano centrato il bersaglio e che il bersaglio era mio padre, il giornalista Mario Francese. Da quel tragico momento la mia vita è stata sconvolta, come se quel lugubre rosario di colpi avesse leso irrimediabilmente qualche punto nevralgico della mia esistenza. E man mano che crescevo, cresceva dentro di me, diventando sempre più grande, un immenso vuoto e un’incredibile ansia di giustizia. Ammetto che per un breve periodo la sete di verità si è trasformata in rassegnazione per una giustizia assai lenta ad arrivare. Ma la rassegnazione presto si è trasformata in rabbia. Già, «Castelli di rabbia» in questi anni ne ho costruiti e tanti.

Negli scritti che ci ha lasciato Giuseppe si parla poco della sua infanzia. E' nato a Palermo il 9 settembre 1966. Aveva un carattere allegro, sempre pronto alla battuta, con cui nascondeva le ferite provocate dalla morte del padre. E tanti amici. A uno era particolarmente affezionato, Franz, l’ingenuone del gruppo:

Oggi ci vediamo molto raramente ma lo ricordo sempre con profondo affetto. In un periodo per me critico a causa della morte di mio padre, Franz è stato come la stella cometa: le risate che mi ha fatto fare credo fossero più efficaci di qualsiasi terapia esistente sulla terra. Ed anche per questo gli ho voluto e gli voglio bene.

Dopo il diploma di Ragioneria, la decisione di non proseguire gli studi all’Università, ma di lavorare subito, utilizzando la possibilità offerta dalla normativa per i familiari delle vittime della mafia. Una decisione che gli provocherà non poche amarezze (vedere in "Con i miei occhi", il capitolo ”Rientrando dalle ferie”).

Faccio parte di quella schiera di «fortunati», almeno così ci considerano in tanti, che hanno avuto un posto di lavoro presso la pubblica amministrazione in qualità di orfani di vittime della mafia. «Categoria fortunata», sì perché per entrare non abbiamo fatto alcun concorso, ma siamo stati assunti attraverso una legge nazionale. Ma c’è da chiedersi: quanti hanno fatto un concorso alla Regione? E quei pochi che lo hanno fatto non si sono rivolti a nessuno? I loro padri, magari: con le loro amicizie, a volte con le loro vere e proprie connivenze. Noi dobbiamo dire grazie solo ai nostri padri, morti da uomini in un mondo di «quaquaraqua». E se gli altri sono invidiosi, fanno bene ad esserlo, perché pochi hanno avuto la fortuna di avere padri come il mio.

Il suo percorso professionale si è svolto interamente all’assessorato Enti Locali. Meticoloso, attento, integerrimo, ha avuto un periodo tormentato quando si è occupato di Ipab: le sue segnalazioni, i suoi rilievi venivano spesso boicottati. Mi dicevano per favore, non sollevi problemi. E no, non sollevo problemi un cazzo. Alla fine gli altri venivano premiati e a me naturalmente calci in culo. L’esperienza di lavoro in quest’ufficio lo aveva tormentato, sentiva di andare a sbattere contro un muro di gomma e in qualche caso si sentì isolato. Arrivò il trasferimento ad altro settore e finalmente un po’ di serenità. Poi c’era la sua vita privata. Era un single, estroverso, brillante. Tante «avventure» femminili, solo una relazione tormentata, durata a lungo tra varie rotture. Ha viaggiato molto, spesso all’estero, ha frequentato intensamente la Palermo by night, i pub, amava la musica, i ritmi mediterranei. Poi questa vita lo ha stancato, ha sentito crescere il vuoto dentro, ha cercato argomenti più solidi, ha scoperto la scrittura. Voleva fare il giornalista, come suo padre. E poi c’era il suo impegno antimafia, la sua intensa partecipazione agli appuntamenti per ricordare le vittime, tutte le vittime di Cosa nostra.

Nella vita non ho soltanto cazzeggiato, qualcosa di serio l’ha fatto anch’io, almeno ai miei occhi. Ho scritto e scritto di mafia. Come mio padre, anche se non faccio il suo mestiere. Allora mi domando e vi domando: perchè lo faccio? Forse soltanto per sete di verità. Verità ancora sconosciute, verità da chi per oltre 20 anni è stato arso dalla sete di giustizia. Così qualche inchiesta l’ho fatta anch’io, in periodici poco conosciuti ma in cui ero libero di scrivere ciò che volevo. (Vedi «Con i miei occhi, il capitolo «Ricordo» e il link Gli articoli). Ho riletto molte verità ufficiali ma ai miei occhi, occhi da ingenuo o forse solo di un povero stupido, sono verità che non convincono. Questa è la terra dei misteri. A volta la verità mi sembra che sia come un immenso puzzle, ogni tanto incastoni un pezzo e cerchi l’altro per andare avanti. Ma il puzzle è infinito e, nonostante tutto l’impegno possibile, non sarà mai completato.

Alla ricerca delle verità sulla morte di Mario Francese, suo padre, Giuseppe ha dedicato tutte le sue energie. Articoli, foto, ricostruzioni, collegamenti: ha messo e rimesso insieme tanti pezzi, costruito un percorso, «spinto» col suo lavoro e la sua determinazione il processo, la sua «missione impossibile» per rendere giustizia a quel morto che a Palermo nessuno voleva e che lui si è caricato sulle spalle, con fatica ma immensa fierezza.

Papà, avevo quegli occhioni scuri quando bruscamente sei andato via. Ho ancora gli stessi occhi e con loro continuo a percorrere le impervie strade della vita. Senza di te, ma con te. Perché mi hai lasciato quella indelebile impronta. E così, con te dentro me, continuo a vivere mentre m'incontro e mi scontro con la vita.

Il processo si è concluso con sette condanne, l’intera cupola di Cosa Nostra e il killer, Leoluca Bagarella. Poi è toccato anche a Provenzano: per lui l’ergastolo. Giuseppe non ha voluto aspettare il processo di appello, né il suo trentaseiesimo compleanno. Ha considerato concluso il suo compito. Missione compiuta. Non sapremo mai cosa gli è passato per la mente. Possiamo solo immaginare quanta angoscia avesse nel cuore. Una sola cosa è certa: la mattina del 3 settembre se ne è andato. Forse ha raggiunto la sua spiaggia nel Paradiso dei giusti. A noi resta un grande vuoto.