PRIMA PAGINA - 13/12/2007

La Cina è vicina

POSTATO DA: VIVIANA


Il treno dei matti è partito per Pechino

di FEDERICA MACCOTTA



La foto dei partenti da Roma Termini

MESTRE (VENEZIA) - Alla fine è un attimo. Un lungo attimo - tutto quello che serve per caricare 208 persone e le loro valigie su un treno. Partenza Mestre, destinazione Budapest. E poi, l'Oriente. Un po' in ritardo sulla tabella di marcia ma "Quel treno speciale per Pechino" lascia la stazione veneta. Pazienti psichiatrici e operatori della salute mentale, familiari e cittadini, una troupe: tutti sui vagoni pensati e voluti dai movimenti Anpis (Associazione nazionale polisportive per l'integrazione sociale) e "Le parole ritrovate", con il patrocinio del ministero della Salute.



Al binario sono baci a chi resta e battiti di mani, un poporopopopo da mondiali appena accennato. Gli altri viaggiatori (quelli che non fanno parte della carovana che attraverso l'Ungheria, la Siberia, la Mongolia e al Russia arriverà a Pechino in venti giorni) guardano. "Questi i cinesi li fanno scappare", commentano. La stazione è invasa. Le ore prima di entrare negli scompartimenti hanno l'atmosfera delle gite. Luciana dell'agenzia di viaggi Bolgia che ha organizzato tutto respira dopo mesi di apnea. Antonio dalla Valtellina è uguale a Massimo Boldi e chiama tutti "cipollina". Piove e fulmina.

Si parte, ma prima che da Mestre si è partiti da tutta Italia. Dalla Sardegna, sveglia alle 4. Da Frascati. Da Bologna. Da Trento, in pullman. E poi dalla Sicilia, dall'Umbria, dalla Lombardia, dalla Toscana, dalle Marche, dalla Liguria, da Roma, dal Trentino, dalla Campania. Con striscioni e zaini, con valigie pesanti come armadi. Colorati, stanchi. Entusiasti.

A Roma Termini sono in 47 e già sembrano un esercito festoso. Sono i sardi e i laziali. Magliette blu, sopra c'è scritto "In treno fino a Pechino? Ma siamo matti!". E una spilla da balia regge un cuore colorato: ognuno ha scritto il suo nome, "così ci aiuta a conoscerci". Perché molti di loro non si sono mai visti prima: la grande famiglia dei 208 si creerà stasera, e sarà una scommessa.

L'Eurostar si mette in marcia, ed è già il momento di tirare fuori panini e focacce, pomodorini dell'orto (sistemati con cura in una scatola da scarpa) che sanno di campagna. Da domani il cibo sarà quello di paesi lontani e sconosciuti: ungherese, russo, cinese. "Ma la cosa a cui ho pensato di più - confessa Gianna, volontaria minuta ed energica - è stata: la porto la macchinetta del caffè?". Siamo italiani, insomma. Le caffettiere qualcuno le ha messe in valigia, c'è da starne certi. Nei preparativi pre-partenza sono state uno dei punti all'ordine del giorno, assieme alla possibilità di fare una spaghettata sulla Transiberiana.

Nelle valigie, grandi e colorate, deve in effetti entrare una vita. Venti giorni sono tanti, venti giorni di viaggio così sono ancora di più. Spaventati? "No, entusiasti, mica ci ha obbligato qualcuno", dice Renato, volontario che non smette di sorridere. Non è una terapia, non è una cura: nessuno è stato scelto o costretto. "Siamo un gruppo di persone che parte", tutto qua, spiega Augusto, uno dei responsabili della delegazione che arriva dalla zona di Cagliari. E il senso di questo viaggio sta proprio in questo, nel salire su un treno ciascuno - operatori, pazienti e familiari - con le sue paure e la sue aspettative. Senza la rigida divisione istituzionale dei ruoli "che spesso rende difficile comunicare", continua Augusto. Su questo si basa l'approccio del "fare assieme" di Anpis e "Le parole ritrovate": uno scambio di esperienze reciproche. "In questo senso è un viaggio verso la normalità", dice, normalità intesa come rapporti alla pari, senza che uno prevarichi sull'altro.

La fiducia, è la chiave. Marisa sorride sotto il cappello: lei la fiducia l'ha dimostrata dicendo "parto", e dicendolo al volo. "Mi hanno dato due giorni di tempo. E io ho detto a chi rimane: 'O mi lasciate partire o parto'". La sua scommessa è questa, lasciare gli ambienti familiari per lanciarsi verso Pechino. Ritagliarsi un'indipendenza, farcela da sola. Dare una mano, anche. Come Palmiro, che sa il francese e l'inglese e che farà da interprete. Lui ha vissuto 25 anni all'estero, tra Parigi e Londra. Ha l'animo del globe-trotter, gli si legge in faccia. E quando ne parla ride: "Sono stato ospitato e ho ospitato: so cosa vuol dire fare del bene, ricevere da mangiare quando non ne hai".

A Firenze diluvia e il treno si blocca. "Iniziamo bene", ridono tutti. Occhi assonnati e voglia di partire. Dopo tre ore sembra di essere in viaggio da una vita, si gioca al paroliere e a briscola. Franca, vestita di rosa e con la foto di un bimbo nel medaglione, insegna i gesti per barare a una dottoressa. Per passare le ore di Transiberiana hanno portato stoffa e ago per confezionare magliette da regalare e strumenti per un'intera banda: dieci flauti, tamburelli, organetto, armonica a bocca. Poi ci saranno i gruppi di auto-mutuo-aiuto, dieci persone che si confrontano per superare un problema o imparare qualcosa: smettere di fumare, per esempio (e quando si sta quattro giorni di fila su un treno ce n'è bisogno).

In valigia camomilla e costumi da bagno, k-way e ombrelli. Sette ore di fuso, latitudini che vanno dalla Turchia alla Scandinavia. Gianluca ha gli occhi scuri e curiosi e non vede l'ora di arrivare a Pechino. Paola, iride azzurro e sorriso continuo, chiede "siamo arrivati?" e se il treno di notte si ferma: "E noi dove dormiamo? Dormiamo in treno?".

Venezia, Budapest, Mosca, Ulan Batur, Pechino. Ma prima c'è Mestre, la partenza dei 208. Già adesso, a scendere dal treno, l'effetto è da mal di mare. Senza scale mobili, le valigie spaccano le braccia sui gradini. "Una cosa da pazzi!", esclama qualcuno.

da La Repubblica