LIBRI - 14/09/2007

Salvatore Niffoi: Romanzi.

DI ALESSANDRO D'ALESSANDRO

Ci sono due modi per tradire la Barbagia. Uno è stato quello della Deledda che ha trasvalutato la carnalità animalesca della sua gente in passioni di alto sentire secondo il modello dell’amour-passion tipico dell’800 romantico; e uno è quello di Salvatore Niffoi che va a scrutare le manifestazioni di quella stessa carnalità dentro le braghe di uomini e donne, crogiolandosi nella descrizione di crescenze o decrescenze, putridumi, escrementi, liquami ecc. In nessuno dei due casi, per chi conosce un po’ la gente barbaricina, la verità è stata, non dico còlta, ma neanche sfiorata, nonostante i due romanzieri abbiano doti indiscutibili di narratori di razza. La gente di Barbagia ha la dignità di chi è e sa di essere povero e che perciò, conoscendo questi limiti invalicabili, né tenta di oltrepassarli per andare incontro a destini imprevedibili né si illude, se la sorte glieli fa oltrepassare, di poter cambiare la propria condizione e il proprio destino. Perciò, quando si innamora o semplicemente desidera un partner, questa gente ama per una volta sola e irreversibilmente.
Niffoi si è inventato un filone che credo continuerà a sfruttare vita natural durante, secondo uno stratagemma caro ai narratori naturalisti e veristi di fine ottocento e da noi rilanciato da Cassola. (Tra parentesi va detto che qua e là senza darlo a vedere Niffoi strizza l’occhio al lettore colto dicendogli “guarda che io conosco anche Verga, Dostoijesckij, Proust, Joyce e chi più ne ha più ne metta.”) Lo stratagemma che io dico è noto: si racconta la storia di “A” tenendo in secondo o terzo o n-simo piano altri personaggi e poi in altri romanzi si rovescia il calzino mettendo in primo piano uno di quei personaggi prima tenuti sullo sfondo. E in tal modo si disegna, mano a mano che si sfornano romanzi, una sorta di balzachiana comedie humaine barbaricina nella quale si accampano personaggi assurdi in storie a dir poco non credibili. Ma si sa, una volta fatta la premessa che, quel mondo, il lettore non lo sconosce ma allo scrittore è ben noto, se si possiedono buone doti affabulatorie, si riesce a far credere anche, per esempio, la storia di Redenta Tiria (La leggenda di Redenta Tiria, Adelphi, 2006) e l’episodio, in essa contenuto, di una intera figliolanza che si impicca lo stesso giorno allo stesso albero perché i due genitori sono morti entrambi per un banale incidente. E perché? Perché nel paese di Abacrasta (nome inventato o storpiato, credo) nessuno moriva di vecchiaia, ma tutti suicidi, chiamati da una voce misteriosa che preannunciava loro la fine, fino a quando non arrivò Redenta Tiria a persuadere tutti gli aspiranti suicidi a recedere dalla loro decisione.
Parlando di Niffoi con dei sardi viene subito fuori l’invidia per il suo successo. Ormai scoperto e cooptato da Adelphi, egli non sarebbe più quello genuino e naif dei primi romanzi, pubblicati per “Il Maestrale” di Nuoro (una casa editrice sulla cui nascita avventurosa dà qualche ragguaglio Marcello Fois nella introduzione all’opera prima di Niffoi, “Il viaggio degli inganni”, 1999), ma si sarebbe ormai piegato alle esigenze del più vasto pubblico di Adelphi. La mia impressione invece è che più va avanti e più la sua narrativa si raffina nel senso del tradimento detto prima. La Barbagia viene ostentatamente tradita con storie comunque assurde, ma rese più verisimili dall’abbandono pressoché completo del dialetto e da una ambientazione più contemporanea. Se si paragona la storia di Bachis Voettone di Ularzai (stilista di genio nato cresciuto e ammaestrato nella sartoria da uno tziu della Barbagia e poi venuto a raccogliere allori e soldi in continente da dove ritorna in Barbagia perché si compia il suo destino tragico, e suicida, manco a dirlo) pubblicata per “Il Maestrale” nel 2003 con il titolo “La sesta ora”, e quella di Carmine Pullana, luminare di chirurgia cardiaca infantile, che ritorna a Baraule per scoprire il mistero della sua nascita a dir poco improbabile (Ritorno a Baraule, Adelphi, 2007), si capisce che ormai Niffoi è completamente padrone del mezzo e assolutamente certo delle sue prerogative affabulatorie. Sa insomma che i suoi lettori colti credono a tutte le balle che racconta, tanto più se gliele fa raccontare da altri personaggi del libro col noto stratagemma del racconto corale. Ogni personaggio di Baraule o dintorni, a conoscenza del fatto, racconta a Carmine la sua nascita, ma ciascuno gliela racconta a modo suo, sicché al chirurgo, fumatore incallito, non resta che morire senza risposte a causa del cancro che gli rode i polmoni, insomma anche in questo caso un suicida.
Non si potrebbe capire il perché del successo di questo scrittore se non si ricorresse al solito piagnisteo sul degrado culturale del nostro tempo specialmente nel nostro paese. In questa nostra cultura nana e semianalfabeta basta prendere un prodotto collaudato (la Barbagia di Grazia Deledda), qualche stilema dialettale come “ajò!” “ohi mama!” ecc., conosciuto anche dal turista più scaciato della Costa Smeralda, un po’ di psicologia da supermercato, un po’ di sesso, per così dire, locale, cioè consumato sempre sulle donne in modo violento sbrigativo antigienico e condito da infondati ma tremendi sensi di colpa, un po’ di paesaggi assolati e assetati, poco mare, molto sudore mescolato coi liquami carnali più svariati, sangue compreso, molti ammazzamenti, profondo disprezzo della vita umana e… il prodotto da supermercato è pronto.
Ma la Sardegna, e la Barbagia in particolare, non sono più tutto questo. I pastori conducono vite lussuose ed è facile incontrarli in viaggi di moda, conoscono separazioni e divorzi senza più ammazzamenti e hanno il massimo rispetto per le ragazze madri. Del vecchio mondo delle cartoline in costume, del sughero e delle launeddas resta solo un cattolicesimo primitivo e superstizioso e, di questo, il massimo rispetto per la madre e la Vergine. Del che Niffoi sembra non sapere nulla. Egli racconta perché sa raccontare ma non è lui a compiere consapevolmente l’operazione detta, perché ciò sarebbe anche comprensibile; il fatto è che anche lui, prima o dopo Adelphi, è comunque un prodotto inconsapevole del nostro tempo: un onesto narratore locale di cui l’industria culturale, sarda prima e continentale poi, si è appropriata, sicura che un prodotto così ben fatto (tipo il pecorino, la vernaccia o la bottariga) glielo può fornire solo un onesto produttore di provincia che ancora non sa come stanno le cose che invece è sicuro di conoscere.
E arriva infallibile il “Campiello” per il suo libro in assoluto più brutto, “La vedova scalza”, del 2006. Trama assurda, vendetta sanguinaria non credibile, un tentativo malriuscito di epicizzare la storia in una sorta di faida tra famiglie che è anch’essa ormai una cosa d’altri tempi. Non c’è niente che tenga di questo romanzo e niente che sia minimamente paragonabile con le storie incrociate de “L’ultimo inverno”, l’ultimo pubblicato per “Il Maestrale”, 2007, dove la natura selvaggia dell’isola, il cui nome viene storpiato in Degnasar (io me ne vergognerei), prima con un lungo periodo di siccità e poi con una sorta di diluvio, riesce ad essere elevata dallo scrittore, probabilmente anche questa volta in modo inconsapevole, a metafora escatologica della prossima dissoluzione del pianeta.
Per completare la bibliografia di Niffoi, almeno quella nota a chi scrive, restano due romanzi della prima maniera, entrambi editi per “Il Maestrale”, “Il postino di Piracherfa” del 2000 e “Cristolu” del 2001, i quali testimoniano la vena pressoché inesauribile di questo scrittore che ha pubblicato praticamente un romanzo l’anno, a partire dal 1999. Si può parlare secondo me di opere minori comunque inseribili nel quadro che si è cercato di delineare fino a qui. Il postino è un single che vive un’esistenza disperata a Piracherfa e che alla fine diventa pazzo: qui l’ossessione è quella del sesso e qui l’estro scatologico di Niffoi ostenta tutta la sua sapienza postribolare e a tratti pornografica. “Cristolu” invece, che è il nome del protagonista ricavato da un diminutivo di “Cristo”, è un frate che, divenuto bandito per compiere una vendetta familiare, viene a sua volta raggiunto dalla vendetta della controparte per cui muore crocifisso e con i genitali, manco a dirlo, amputati.
Che altro dire di questo narratore? Ci sarebbe in lui la volontà di portare le sue storie paradossali ad un livello quasi comico: una sorta di Gadda barbaricino che conosce bene le tecniche dei narratori che lo hanno preceduto ma non possiede la sapienza linguistica dell’ingegnere, per cui la sua resta più che altro una velleità. Infatti, se il lettore crede alle assurdità raccontate non si capacita di poterne ridere; se invece percepisce il tentativo di Niffoi, capisce anche che la materia è troppo radicata nel profondo dell’autore e che perciò l’autore non riesce a prendere da essa la distanza giusta per poterne far ridere.
Questo è secondo me il limite di una narrativa che per altri versi è comunque capace di tenere desta l’attenzione. C’è una spiegazione, secondo me. Niffoi non si è mai liberato del cattolicesimo nella versione superstiziosa che se ne vive in Sardegna. Ci sono dei momenti che con somma ingenuità egli confessa questo suo legame profondo e allora non si ride più né dei suoi personaggi, vittime di una disperazione che si direbbe genetica perché inconsolabile anche dalle bellezze che Degnasar offre, né dell’ingenuo narratore che, col perfetto sussiego dei religiosi nostrani, racconta balle facendo leva solo sulla premessa che siccome i lettori, della Barbagia, non sanno niente, essi si devono fidare di un narratore onnisciente autorizzato per grazia divina a rifilare loro le balle più incredibili. Ma tant’è! Quando narratori si nasce, si possono raccontare le storie più assurde nelle modalità più ingenue perché i fruitori stanno lì che pendono dalle loro labbra senza muovere la minima obbiezione.
Mi ricordo di quando la nonna mi raccontava le sue favole e a un certo punto le correggeva con l’espressione “passo indietro!” perché capiva che se non ricuciva qualche strappo logico che mi aveva ammannito in precedenza anche il bambino ingenuo che aveva di fronte gliene avrebbe chiesto conto. Se Niffoi dovesse fare un passo indietro, come la nonna, si troverebbe completamente spiazzato. Dunque continuerà a ripescare personaggi di secondo piano per cucirgli addosso una nuova storia nata dalla sua fantasia, diciamo così, postmoderna fino a quando la giuria del Nobel non si deciderà ad assegnargli il celebre premio come a Grazia Deledda, sempre che i parrucconi di Stoccolma non si scandalizzino troppo dei liquami schifosi di varia provenienza di cui i suoi romanzi sono colmi.