CINEMA - 04/05/2007

"I cento chiodi" di E. Olmi

DI BORIS SOLLAZZO

Tra tanti registi di cui auspicheremmo un ritiro dalle scene, ci tocca assistere al volontario prepensionamento- ma solo per i film di fiction, non per i documentari- di un maestro come Ermanno Olmi. Autodidatta formatosi con i documentari industriali negli anni ’50, ha uno spessore intellettuale e cinematografico tanto importante quanto atipico. Centochiodi, il suo ultimo lavoro, è un commiato degno di lui: il ritorno al minimalismo, ad un cinema e ad una narrazione semplice ma mai semplicistica, si dimostra forse la più felice delle sue scelte narrative, in questo film come in tutta la carriera. L’inizio dell’opera è quasi un Codice da Vinci: un cancello separa da vittime e investigatori un luogo di cultura in cui è stato compiuto un delitto. Nessun corpo esanime, però, ma libri antichi perforati da chiodi enormi. Da qui nasce un giallo di facile soluzione e una ricerca spirituale ed esistenziale del protagonista, un Raz Degan sempre bellissimo e sorprendentemente bravo. Lui, il “professorino”, filosofo delle religioni e forse persino aspirante seminarista, sembra uno spin-off del convento di In memoria di me. La stessa drammatica esigenza di conciliare spiritualità, ansia di giustizia con un mondo ormai imploso e, forse, senza speranze. La stessa rabbia repressa contro la gerarchia ecclesiastica, il dogma (inteso come ideologia e fondamentalismo) e ciò che si dice e si fa in nome di Dio, lo stesso amore per l’umanità di Gesù. Si abbandona, però, l’atmosfera rarefatta e claustrofobica del convento per la campagna mantovana, in un realismo conciliante ma non meno intenso. Osserva Olmi, e dipinge leggero scene che si formano davanti a lui, sfiorando con naturalezza molti altri problemi. E ci regala un atto d’amore e d’accusa, un sobrio urlo di libertà contro tutti gli oppi dei popoli.