CHIOCCIOLA - 11/02/2009

Eutanasia

DI CIRO

Eh sì, caro Emilio, anch’io mi accodo ai tanti che in questi giorni parlano e straparlano circa il caso Englaro e l’eutanasia. Ma credo che al di là delle reazioni emotive è perché in fondo il tema coinvolge aspetti della vita (il suo senso?) quali la sofferenza e la morte, che appunto riguardano tutti, pur se argomenti scottanti e se possibile da evitare. A costo di apparire qualunquista (ti ricorda qualcosa l’accusa?) certamente non aggiungo niente di nuovo o peggio ricette risolutive. E’ riduttivo stringere sul “favorevole o contrario”, piuttosto mi permetto spunti di riflessione prima a me stesso e poi a chi ha la bontà di leggere. Innanzitutto, seguendo il consiglio del buon Pascal, per “ben agire bisogna prima ben pensare”, quindi distinguere, oltre il principio generale, le premesse e i vari casi che posson presentarsi.

Mettiamo una legge. Chi ci dice che – come spesso accade – una volta operante non si possa cadere in errori di applicazione o interpretazione aumentando la confusione? E poi valori così alti come la vita possono essere messi ai voti a maggioranza, come se la verità sia un fatto numerico e non oggettivo?

La vita è un bene solo individuale? Se per un incidente io perdessi mia moglie o un figlio, direi che la perdita riguarda solo loro e non coinvolge me? Non sono “beni” tolti anche a me perché appunto anche “miei”?

Ognuno disponga della propria vita. Se io vedo una ragazza che tenta di buttarsi giù da un ponte mi fermo a guardarla pensando che sono affari suoi oppure intanto intervengo? Io ho il “diritto” a suicidarmi imponendo a moglie, figli, genitori, amici, parenti, colleghi, conoscenti questa perdita?

Opinione sull’eutanasia. E’ definitivo il giudizio che ciascuno ha dell’eutanasia oppure si può cambiare idea? Non sarà che la decisione dipende dal contesto sociale, familiare e direi (addirittura!) morale? Di modo che l’atteggiamento risulti diverso in presenza di una spiritualità e/o di un’attenzione amorosa intorno (infatti le reazioni dei malati terminali sono molto varie).

Distinguere tra volontà propria cosciente e la scelta di un parente. Certo non è da poco questa differenza, magari espressa per tempo con apposita dichiarazione scritta pur se sempre modificabile. Forse non è la soluzione ma aiuta a far chiarezza.

L’atteggiamento verso l’eutanasia, scaturisce senz’altro dal tipo di malattia che si ha al momento, ma anche da convinzioni religiose/morali/politiche (la questione giuridica e di costi è un finto problema). Ciò fa sì che si propenda per una soluzione o per un’altra. Ma non è accettabile il principio che solo le parti in causa abbiam diritto a dire e agire, o che per tale motivo siano gli unici ad avere un giudizio insindacabile (invito del papà di Eluana ai politici a vedere sua figlia o a lasciar “libero lui” di percorrere la strada scelta). E’ risaputo che quando si è invischiati nell’unico orizzonte, magari viziato dall’emozione del momento, spesso il giudizio non è sereno e preso per il giusto. Paradossalmente è “stando fuori” che si sceglie meglio e si vede la realtà oggettivamente.

Ho vissuto in famiglia un fatto grave di una ragazza che si è tolta la vita, rimasta però in coma con encefalogramma piatto ma il cuore ancora pulsante, tenuta in vita con respiratore artificiale. Si è aspettato circa 10 giorni, poi il padre vedovo, coraggiosamente, pur essendo uomo di provata fede, decise, consultati gli altri figli, di lasciar fare alla volontà di Dio e quindi alla natura. Tolto il respiratore è morta in pochi secondi. Credo che tutti siamo contrari al cosiddetto “accanimento terapeutico”, ma non è ammissibile che il limite tra aiuto farmacologico e risposta dell’organismo siano alla mercè del libero arbitrio o variabile secondo valutazioni mediche soggettive. Il medico, da giuramento di Ippocrate, deve lottare per la guarigione e la vita, sempre e fino all’ultimo, perché il bene della vita umana non dipende dall’età o dal grado sociale. Tantomeno dal livello di salute o interezza fisica, come se la vita (cioè il diritto a mantenerla) dipenda da avere un organo in più o in meno. E poi, se vogliamo dirla tutta, allargando l’applicabilità non solo alle malattie fisiche, perché non permettere l’eutanasia anche ai depressi, a chi ha fatto fallimento, a chi è stato bocciato,oppure se la mia squadra ha perso il derby o mi è morto il gatto? Magari non ho il coraggio di farlo io! E’ chiaro è una provocazione, ma può far riflettere. Abbiam mai pensato alle menomazioni avvenute dopo la nascita? Che differenza hanno con quelle congenite? Non dipende, insisto, dal grado di coscienza, di motivazione e sopportazione del dolore e dai cari che sono intorno? Rifuggiamo sì dal dolore, ma “rassegniamoci” a questa evenienza: c’è n’è tanto in giro, sia fisico che morale.

Concludo che per ben intendere l’eutanasia bisogna domandarsi: che senso e che valore do oggi io, personalmente, alla sofferenza e alla morte? “Loro” son dentro la vita! Se non ho risposta allora l’unico scampo è farla davvero finita! Ma il “guaio” non accade solo agli altri, ci son dentro anch’io. Volenti o nolenti siamo coinvolti.

Ciro